Questo santo nacque il 13-10-1563 a Villa Santa Maria (Chieti), dalla nobile e ricca famiglia dei Caracciolo, celebre nella storia per i cardinali e i vescovi dati alla Chiesa, per i guerrieri e i governatori forniti alla patria. Fin dall’infanzia, Ascanio si sentì attratto verso l’Eucaristia e nutrì una tenera devozione alla Madonna che onorava portando l’abitino del Carmine, recitando il rosario e l’ufficio, digiunando rigorosamente ogni sabato, anche tra gli esercizi cavallereschi. Da giovane esercitò una grande carità verso i poveri per i quali chiedeva soccorsi al padre o si privava della migliore parte dei suoi alimenti.
A 22 anni fu colpito da una gravissima elefantiasi che lo deturpò in tutto il corpo. Alla considerazione della vanità dei beni terreni, egli propose di lasciare il mondo se avesse recuperato la salute. Il suo voto fu esaudito. Dopo aver distribuito ai poveri quanto era di suo uso, si recò a cavallo a Napoli, per lo studio della teologia. Nei tempi liberi, vestito dell’abito ecclesiastico, visitava le chiese meno frequentate, per darsi più facilmente all’orazione. Fu ordinato sacerdote a 24 anni. Benché così giovane, il santo esercitò subito il sacro ministero tra i reclusi nelle prigioni e i malati negli ospedali. Nei processi si legge che ne sanò molti facendo un semplice segno di croce sulla loro fronte. Se qualcuno ardiva ringraziarlo, esclamava: “Fratello, datene grazia a Dio e non a me, che sono il più tristo e malvagio peccatore che si trovi”.
Quando scriveva qualche lettera, si firmava abitualmente: Francesco peccatore. A Napoli, nell’ospizio degl’Incurabili, sorgeva la Compagnia dei Bianchi per l’assistenza ai condannati a morte e ai galeotti. Il Caracciolo chiese di farne parte (1588). Verso quel tempo un nobile genovese, Don Agostino Adorno, e Don Fabrizio Caracciolo, abate di Santa Maria Maggiore di Napoli, lo scelsero come compagno per la fondazione dell’Ordine dei Chierici Regolari Minori. Ai i soliti tre voti, ne aggiunsero un quarto, di non ricevere cioè dignità ecclesiastiche. Il loro scopo era di erigere collegi per l’educazione della gioventù, ed eremitaggi per i membri che avessero preferito condurre vita contemplativa. Per redigere le costituzioni, si ritirarono 40 giorni presso i Camaldolesi di Napoli. Mentre a Roma essi ne attendevano l’approvazione da parte del papa Sisto V, il Santo andava pellegrinando da una basilica all’altra, mendicando alle porte dei conventi e dormendo con un lebbroso nella portineria dei Cappuccini.
Di ritorno a Napoli essi ottennero l’uso dell’Oratorio dei Bianchi nel quale fecero la professione religiosa il 9-4-1589. Per la grande devozione che il Caracciolo nutriva verso il Poverello d’Assisi, cambiò il nome di battesimo con quello di Francesco. Ben presto numerosi sacerdoti abbracciarono quel loro genere di vita che comportava la recita dei divino ufficio in comune e l’adorazione perpetua a turno del SS. Sacramento. La loro prima sede a Napoli fu la chiesa parrocchiale della Misericordia.
L’Adorno, che aveva importanti affari da regolare in Spagna, dov’era già stato come ambasciatore straordinario della sua Repubblica, volle condurre Francesco con sé (1589) nell’intento di stabilirvi l’Ordine. Il loro soggiorno a Madrid non approdò a nulla. Ritornati un anno dopo in patria, Francesco si ammalò gravemente, e l’Adorno morì (1591) dopo aver trasferito l’Ordine alla chiesa di Santa Maria Maggiore in Napoli e averlo fatto confermare da Gregorio XIV. Il Caracciolo ne fu eletto Preposito Generale perpetuo, ma egli, nella sua umiltà, non accettò la carica che per tre anni. Ricusando tutti gli onori inerenti ad essa, continuò a questuare per soccorrere i poveri, a portare le vesti lise rifiutate dagli altri religiosi, a servire gl’infermi, a rassettare i letti, a pulire la chiesa, a scopare la casa, a scegliere per sé le stanze più disadorne e scomode. Quando si recava nelle città in cui non c’erano i suoi religiosi, ai ricchi palazzi di ammiratori e congiunti preferiva le portinerie dei conventi o le corsie degli ospedali nei quali si prestava a lavare panni e a rattoppare vesti.
Nel 1594, il Santo ripartì per Madrid dove, nell’attesa di aprire una casa, albergò nell’ospedale degli Italiani e si mise al servizio degl’infermi. Poco mancò che rapporti di malevoli al re Filippo II ne provocassero la chiusura, ma Dio era con lui. In un viaggio che fece dall’Escoriale a Madrid, il Santo cadde sfinito ai margini della strada per l’eccessivo dolore ad una gamba. All’improvviso gli si presentò un giovane che si offerse ad accompagnarlo con il suo cavallo fino al di lui Istituto. Smontato di sella, Francesco si voltò per ringraziare il generoso benefattore, ma cavallo e cavaliere erano già scomparsi. Quando ritornò in Italia (19-6-1596), a Roma i suoi religiosi avevano ottenuto la Chiesa di S. Leonardo che, due anni dopo, cambiarono con S. Agnese a piazza Navona. Andò a visitare la nuova sede e, nel ritornare a Napoli, passò per il suo paese natale. I concittadini gli manifestarono la loro ammirazione inginocchiandosi al suo passaggio e baciandogli le mani. Confuso per quei segni di stima, egli prese un crocifisso, s’inginocchiò sulla pubblica piazza e confessò i cattivi esempi che aveva dato in gioventù.
Nel capitolo del 1597 S. Francesco fu ancora rieletto Priore generale . Convinto di essere un servo inutile, per ubbidienza accettò di rimanere in carica ancora un anno, poi fu eletto Proposito di Santa Maria Maggiore in Napoli e Maestro dei Novizi. Dotato del dono di profezia e del discernimento degli spiriti, più volte a giovani secolari predisse la vocazione allo stato religioso, ad altri l’apostasia. Grazie ad un Breve di Clemente VIII, Filippo II era diventato più favorevole a Chierici Minori e suo figlio, Filippo III, che gli era succeduto, era pronto non solo a ricevere Francesco, ma ad offrirgli dignità ecclesiastiche. Il santo partì dunque ancora una volta per la Spagna con 4 confratelli. Nel 1601 fondò una casa a Valladolid e un collegio di studi presso l’Università di Alcalà. Poi fu eletto maestro dei novizi a Madrid, e nel 1604 fu mandato in Italia in qualità di Visitatore delegato.
L’anno seguente accettò, per ubbidienza, l’ufficio di Vicario generale in Italia e di Proposito della Casa di Santa Maria Maggiore in Napoli; nel 1606 ottenne da Paolo V, che avrebbe voluto farlo vescovo, la chiesa di San Lorenzo in Lucina in Roma dove stabilì opere di zelo e compì segnalati prodigi; nel 1607, ottenuta l’esenzione da ogni carica, si diede ad una vita di maggior austerità. Nella bolla di canonizzazione è detto che niente a Francesco fu più dolce che il parlare di Dio, niente fu più abituale che l’esortare all’amore di lui, motivo per cui veniva chiamato il promotore e il predicatore del divino amore. In lui, il fuoco della divina carità era talmente grande che gli traspariva anche dal volto. Fu solito protrarre l’adorazione del SS. Sacramento per intere notti, durante le quali s’infiammava e versava abbondanti lacrime.
Per promuovere il culto dell’Eucaristia, stabilì che gli alunni del suo Ordine ogni giorno, a turno, s’avvicendassero nell’adorare il SS. Sacramentato. Questo pio esercizio volle che fosse il loro principale distintivo. Non si stancava mai di esortare i sacerdoti a celebrare ogni giorno la Messa e i fedeli a comunicarsi frequentemente, di promuovere l’esposizione del SS. Sacramento in forma di Quarantore a ogni prima domenica del mese. Per questa sua pietà eucaristica i vescovi dell’Abruzzo lo dessero a protettore del movimento eucaristico della loro regione.
La veemenza degli affetti e le abbondanti lacrime versate impedivano al santo di proseguire la celebrazione della Messa. Tornando in sacrestia domandava umilmente perdono dello scandalo che credeva avere dato con quelle interruzioni. I fedeli, invece, ne rimanevano edificati. Un giorno, mentre celebrava in Alcalà con il suo solito fervore, accese in una sua penitente il desiderio di comunicarsi con un fragmento dell’ostia da lui consacrata. Iddio si compiacque di esaudirla palesemente con grande meravigliata dei circostanti.
Il grande amore che il Caracciolo nutriva per il Signore si riversava sul prossimo. Era tanta la sua sollecitudine per la conversione dei peccatori, delle meretrici e dei condannati a morte che lo chiamavano “il cacciatore delle anime”. Era talmente sollecito a visitare gl’infermi, ad assistere i moribondi, a raccogliere elemosine per provvedere all’educazione o al matrimonio delle fanciulle che lo chiamavano “il padre dei poveri”. Era talmente infaticabile nell’ascoltare le confessioni, nel fare la dottrina ai fanciulli, nel predicare le verità eterne ai fedeli, nell’organizzare Pie Congregazioni che lo chiamavano “l’uomo di bronzo”.
Pur essendo di costituzione infermiccia, viaggiava sempre a piedi, viveva di elemosine e non si riparava dalle intemperie anche se gli causavano catarri eccessivamente penosi. Nel camminare teneva sempre gli occhi fissi a terra. Non fu mai visto alzarli per guardare le donne, fossero pure parenti. Di notte si disciplinava con corde tramezzate di spille e rosette di ferro fino a tramortirne. Prendeva tre o quattro ore di sonno, vestito, sopra nude assi o un ruvido saccone dopo aver a lungo meditato sulla passione di Gesù e pregato con le braccia distese a forma di croce. Il santo indossava ogni venerdì e le vigilie delle feste principali, un cilicio a forma di giubbone, tessuto di peli irsuti, con il quale fece pure lunghi viaggi fino a sanguinarne. Ai fianchi portava cinte di setola e catenelle, quando l’ubbidienza glielo permetteva. Dopo la morte gli fu trovata sul petto una piastra di ferro, forata e internata talmente nelle carni che non si vedeva quasi più. Frugalissimo nel vitto, soleva lasciare a mensa le pietanze che più gli piacevano. Digiunava a pane e acqua tre giorni la settimana, le vigilie e dal primo al quattordici agosto in onore dell’Assunta.
Nel 1608, Francesco si recò con il fratello teatino, P. Antonio, ad Agnone (Campobasso), chiamatovi dai Padri Filippini, desiderosi di unirsi all’Ordine da lui fondato. Giunto da Loreto alle porte della cittadina, esclamò d’improvviso: “Ecco il luogo del mio riposo”. Fu assalito tosto da così violenta febbre che fu costretto a mettersi a letto. Riuscì ancora a ricevere il Viatico in ginocchio, ma poco dopo cadde in agonia. Le sue ultime parole furono: “Andiamo, andiamo!”. Gli fu chiesto dove voleva andare. Con voce forte egli rispose: “Al cielo, al cielo”.
Morì il 4-6-1608 dopo aver invocato in modo speciale San Michele, San Giuseppe e San Francesco d’Assisi. Le espressioni che maggiormente risuonarono sul suo labbro furono: “Sangue preziosissimo del mio Gesù, tu sei mio, e per te e con te soltanto spero di salvarmi. O sacerdoti, sforzatevi di celebrare la Messa ogni giorno e di inebriarvi di questo sangue!”. Tre giorni dopo la morte fu fatta l’autopsia del suo corpo. Attorno al cuore di lui furono trovate impresse le parole: “Lo zelo della tua casa mi ha consumato!”.
Il Caracciolo fu beatificato da Clemente XIV il 4-6-1769 e canonizzato da Pio VII il 24-5-1807. Le sue reliquie furono traslate a Napoli e collocate nella chiesa detta di Monteverginella.
Autore: Guido Pettinati