E’ eloquente e tipica l’esperienza di Agostino: “Stabilii di applicarmi allo studio della Scrittura per vedere che cosa fosse. Ed ecco che vi trovo una dottrina non comprensibile per i superbi, né chiara per i fanciulli, ma all’inizio umile, poi sublime e velata di misteri. Io non ero in grado di penetrare in essi, o di piegare la fronte dietro ai suoi passi. Quando, infatti, mi applicai alla Scrittura, non la pensavo come ora; perciò mi parve indegna di essere paragonata con la dignità tulliana. Il mio orgoglio rifuggiva da quella maniera di esprimersi e il mio acume non penetrava nel suo intimo. Essa era tale da crescere assieme ai piccoli, ma io, gonfio di superbia, mi volevo credere grande, sdegnando di essere ancora bambino”. Lo stesso Agostino afferma altrove: “Da superbo osavo cercare ciò che solo l’umile può trovare”. E questo sguardo retrospettivo gli fa capire che egli allora “chiudeva la porta al suo Dio”. La nostra attitudine di fronte alla Parola deve essere dunque improntata a umiltà profonda. Ciò è gravido di conseguenze. Anzitutto la si accosterà con quel “senso del sacro” che si impone all’uomo ogni volta che si accosta al divino: con timore e tremore. La desacralizzazione in atto nella chiesa, legittima per taluni aspetti, non può e non deve dissolvere quell’alone di mistero in cui Dio ha avvolto la sua Parola. E’ lecito eliminare dalle realtà ecclesiali quell’eccesso di sacro che vi hanno messo gli uomini; ma non “il sacro” autentico che vi ha messo Dio. Certo, Dio ha umiliato la sua Parola eterna nel nostro povero linguaggio umano. Siamo grati all’esegesi moderna per aver messo in luce tutto questo, ma solo per adorare in ginocchio questa mirabile condiscendenza non meno stupenda di quella dell’incarnazione.
Mariano Magrassi