Cristo può dire di me, come disse agli apostoli: «Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle prove»? Se l’affermazione di Gesù risulta lusinghiera e, al momento in cui venne pronunciata, ampiamente generosa (siamo infatti alla vigilia della passione, quando i discepoli avrebbero disertato in massa il Maestro!), la predicazione apostolica ci ammonisce che non abbiamo «ancora resistito fino al sangue nel lottare contro il peccato». L’intera vita umana, nel suo svolgersi e nel suo compiersi, può essere dunque considerata una situazione di prova, di lotta, si direbbe di apprendistato e di collaudo in ordine al nostro supremo destino. La lettera di Giacomo ci invita a considerare «perfetta letizia ogni sorta di prove», sapendo che la prova accolta in spirito di fede «produce la costanza», la quale conferisce perfezione e integrità all’agire umano. Paolo a sua volta ci assicura che Dio non permette che si venga provati al di sopra delle proprie forze e che, con la prova, dà anche la capacità di sopportarla. La “costanza”, questo saper “star sotto” che include a un tempo il patire e il pazientare, è presentata nel libro dell’Apocalisse come una prerogativa di Gesù. Essa emerge nella condotta di alcune delle famose chiese dell’Asia Minore e brilla nella testimonianza dei santi. La pazienza è il criterio di prova che Benedetto da Norcia illustra nella Regola quando parla della “Disciplina nel ricevere i fratelli”. Il candidato deve «essere provato in ogni pazienza». Soltanto con questa disposizione d’animo, ci assicura il Vangelo, noi possiamo possedere, salvare le nostre vite. Pazientare, inoltre, comporta anche l’accettazione dei propri limiti e sprona al fiducioso ricorso alla grazia divina.
Antonio Gentili