Nella sofferenza non si può fare altro che soffrire, ma per quanto “stringere i braccioli della poltrona del dentista o tenere le mani in grembo non cambi le cose, perché il trapano continua a trapanare”, i sentimenti da soli sono ugualmente troppo duri da sopportare, e allora mascherarli da riflessione forse può servire a qualcosa. Nel 1961, due anni prima di morire, C.S. Lewis racconta in un diario… la scomparsa di sua moglie dovuta a una malattia. Lo fa con un senso profondo di ribellione (arrivando a definire Dio un “Sadico Cosmico”) per ricavare in prima battuta l’unico piacere possibile per chi è tormentato: “il piacere di restituire i colpi” (“…dire in faccia a Dio quello che pensavo di Lui”). E insieme il folle grido “Ritorna!”, l’urlo di chi non accetta di aver perduto ciò che amava di più, di chi non sente d’ora in avanti di potercela fare: perché nulla è più come prima né lo sarà, e il prima e il dopo alla luce della perdita non hanno più valore. Lamentarsi con Dio rimanda in genere a una questione morale: a un’aspettativa delusa, a un’avversità, a un premio non ottenuto, al corso delle cose diverso da come ce lo si attendeva. Oppure il problema è nel significato: Giobbe si lamenta per un’ingiustizia che non è in grado di capire. Ivan Karamazov dice che se esiste il pianto di un bambino, qualunque ne sia la causa da Dio consentita egli non la accetterà.